Giampaolo Pansa riporta il numero
di 2.365 donne uccise, spesso prima stuprate dai partigiani, di cui
si conosce il nome e la vicenda. A cui bisogna aggiungere
le centinaia di donne violentate che sono riuscite a sfuggire alla
morte e che per un comprensibile senso di pudore hanno taciuto. E
quelle picchiate, rapate a zero ed esibite come trofei per la sola
colpa di essere fidanzate di soldati fascisti.
Giuseppina Ghersi era una
bambina di appena 17 anni quando fu picchiata, stuprata e uccisa dai
partigiani con l’accusa di essere al servizio del regime fascista.
Studentessa delle magistrali alla “Rossello” di Savona scrisse un
tema che la maestra inviò al Duce ottenendone i complimenti: questa
la sua colpa.
La mattina del 25 aprile 1945, Giuseppina fu
sequestrata da tre partigiani e portata nei locali della Scuola
Media “Guido Bono” a Legino, adibito a Campo di Concentramento per i
fascisti. Le cosparsero la testa di vernice rossa e le vergarono la
emme di Mussolini sulla fronte per essere poi esibita in pubblico
come un trofeo di caccia. Fu pestata a sangue e violentata per
giorni.
Il 30 aprile fu posto fine al suo martirio con un colpo di pistola
alla nuca e il suo corpo gettato, insieme ad altri, su un cumulo di
cadaveri davanti al cimitero di Zinola.
Al riconoscimento della piccola partecipa
Stelvio Murialdo il quale dà una testimonianza agghiacciante:
«…erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta,
evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza
riuscire a cancellare la sua giovane età. Una mano pietosa aveva
steso su di lei una sudicia coperta grigia che parzialmente la
ricopriva dal collo alle ginocchia. La guerra ci aveva costretto a
vedere tanti cadaveri e in verità, la morte concede ai morti una
distesa serenità; ma lei, quella sconosciuta ragazza NO!!! L’orrore
era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un
occhio bluastro, tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno.
Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella
povera disarticolata marionetta, con un braccio irrigidito verso l’
alto, come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era
piegato verso il dorso della mano” …»
Lo scrittore Giampaolo Pansa, uno dei
massimi conoscitori della guerra partigiana, nel suo libro “Bella
Ciao” dedica un capitolo ad un’altra triste vicenda: “Gli stupri di
Brogli”
La retorica resistenzialista e i libri che ne
derivano hanno sempre ignorato l’esistenza del Campo di Brogli… un
lager nella 6° Zona ligure, dove tra l’estate e l’autunno 1944
furono rinchiusi molti prigionieri fascisti. La loro sorte era
segnata: venivano torturati e poi uccisi (…) erano tutti uomini, a
parte due donne.
Una era un’ostetrica genovese, fra i trenta e i quarant’anni, bionda
e con la testa rapata in modo selvaggio, coperta di croste
rossastre. In seguito fu poi violentata e fucilata.
L’altra donna era molto più giovane e nessuno sapeva che fine avesse
fatto.”
In seguito Gianpaolo Pansa rintracciò
la donna, Lucia R., e ne raccolse la testimonianza:
Nel 1944 aveva 19 anni e frequentava la terza liceo classico a
Genova. Una domenica di settembre era andata a visitare uno zio
ammalato, fascista delle ultime file, commissario prefettizio di un
piccolo comune della Valle Scrivia.
Quel giorno alla porta dello zio bussarono tre sconosciuti,
partigiani arrivati per ucciderlo. Ma lui non c’era perché la sera
prima era stato ricoverato all’ospedale di Novi Ligure.
Il terzetto trovò soltanto Lucia, la prese e la portò a Brogli (…) «arrivai
a Brogli in preda alla disperazione. Il capo del lager, il famoso
Walter, mi accusò di essere un’ausiliaria fascista, per di più
parente di un podestà repubblichino (…) si divertiva a spaventarmi,
i suoi uomini assistevano ridendo e insultandomi. Ma il peggio
doveva ancora arrivare e successe la prima sera. Mentre tutti i prigionieri venivano rinchiusi nel casone, mi portarono in
una casupola vicina al comando del campo. Ero una ragazza illibata e
quella sera persi la verginità. Il primo a violentarmi fu Walter,
che poi mi passò a due russi. Mi presero con una brutalità bestiale,
perché ero una troia fascista, così dicevano. Quando mi riportarono
nel casone dei prigionieri, sanguinavo, avevo la faccia nera per le
botte ricevute (…) pensavo che dopo essersi sfogati, Walter e i suoi
uomini mi avrebbero lasciato in pace. Ma il giorno successivo mi
resi conto che ero considerata una preda da stuprare a loro
piacimento. Mi facevano uscire tutti i giorni dal casone e mi usavano come fossi una
prostituta al soldo della banda di Brogli (…) La mia tortura durò
tutto il mese di ottobre (…) a salvarmi fu l’arrivo a Brogli di un
commissario politico anziano (…) Mi sono accorsi anni per liberarmi
dell’orrore di Brogli».
In un altro capitolo del suo libro,
Giampaolo Pansa, descrive la vicenda di Giuseppe Ugazi e delle sue
due figlie.
“Nell’agosto 1944, a Galliate viveva Giuseppe
Ugazio, 43 anni, segretario del fascio repubblicano di quel comune
(…) Ugazio viveva con due figlie. Cornelia, 21 anni studiava
Medicina all’Università di Torino (…) la più piccola, Mirella detta
Mirka, 13 anni. Verso le nove di sera del 28 agosto si presenta alla
trattoria San Carlo, dove se ne stava seduto con un paio di amici,
una pattuglia di militi della repubblica e invitano l’Ugazio a
seguirli insieme alle figlie perché si teme un attacco dei ribelli.
Il segretario del fascio e le due ragazze salgono sull’automobile
dei militi e soltanto all’ora scoprono di essere caduti nelle mani
dei partigiani garibaldini travestiti da fascisti.
Li conducono attraverso i campi sino a una cascina isolata, la
Negrina, qui li aspettano una ventina di ribelli che hanno già
occupato il cascinale.
I partigiani mangiano e bevono, sotto lo sguardo atterrito dei tre
ostaggi. Il padre di Cornelia e Mirka spera ancora di salvare almeno
le figlie, poiché tra i ribelli ha riconosciuto un giovane di
Galliate. Poi si rende conto di non avere via di scampo. Viene
spinto in un boschetto vicino al podere, legato a un albero e
torturato sotto gli occhi delle ragazze.
La sua vita sta per concludersi. I partigiani lo finiscono
spaccandogli il cranio con il calcio dei moschetti. Subito dopo
tocca alle figlie. Sia Cornelia che la piccola Mirka sono stuprate.
I ribelli se le passano di mano per l’intera notte. E’ quasi l’alba
del 29 agosto quando le ragazze non danno più segni di vita.
La banda trascina i corpi nel boschetto, accanto al cadavere del
padre. Gli stupratori scavano una fossa poco profonda, una trentina
di centimetri, non di più.
Al contatto con il freddo del terreno, Cornelia e Mirka si
riprendono. Allora i partigiani fracassano la testa della ragazza
più grande con i moschetti e soffocano Mirka, schiacciandole il
collo con uno scarpone.
Poi se ne vanno poco dopo l’alba. E riprendono a combattere per la
rivoluzione comunista”.